UN LIBRO UN LUOGO a cura di David Ferrante: LUCI E OMBRE DELLA MAIELLA

UN LIBRO ALL’OMBRA D’ABRUZZO  –  Ci sono periodi in cui devi fermarti per poter ripartire, ci sono momenti in cui hai bisogno di riflettere prima di continuare, e scopri il valore dell’ombra. In una calda giornata della vita, mentre lavori nei campi, ti ritrovi stanco e sudato, allora vai sotto l’ombra di un albero per un po’ di ristoro, per poter ripartire.

La prima volta che lessi il titolo del libro di Primavera, Il valore dell’ombra, rimasi positivamente colpito: non avevo mai riflettuto sul grande valore dell’ombra ma definiva così bene una piacevole sensazione che custodisco dentro. Poi lessi il libro, e trovai un mondo che non mi sarei mai aspettato e per me molto affascinate. Perché? …

Una raccolta di racconti, ambientati in Abruzzo, prevalentemente sulla Maiella, nati da una forzata lunga sosta e da un viaggio iniziato da molto lontano.

Perché questo titolo, Il valore dell’ombra?

Rispondo alla sua domanda con le parole dello scrittore Giovanni D’Alessandro che ha curato e impreziosito il libro con la sua prefazione.

«C’è una luce che si leva dai sei racconti di questa silloge di Gino Primavera, antifrasticamente intitolata Il valore dell’ombra: è la luce emanata dalle cose. Nell’antichità era credenza che ogni cosa possedesse una propria luminosità quale solo i profeti della percezione e della parola (qual è l’Autore) fossero in grado di individuare e far risplendere, grazie alla medianica apertura di un varco di recupero di essa dall’oscurità. I greci avevano dato un nome – Teia – alla dea che aveva il dono di far rilucere, vincendo ogni opacità, questo recondito splendore. Perché si parla di luce in questi sei racconti? Essa non è collegata solo, come matrice poetica, alle tante descrizioni che l’Autore con maestria fa della luce della sua terra, dello splendore ad esempio dell’amata Maiella. È collegata in modo più profondo alla sua poetica, al suo modo trasfigurato e trasfigurante di illuminare quasi ogni periodo, quasi ogni frase che scrive. In ogni pagina si aprono squarci improvvisi in cui lo scrittore vede tutta la realtà animarsi davanti ai suoi occhi e ne dà conto. Lo fa di getto, in modo torrentizio, trascinante, senza neppure farsi costringere – pur nella predilezione per frasi brevi e parole del comune parlato – in una scheletrica osservanza di classiche strutture sintattiche del fraseggio.»

A quale racconto ti senti più legato?

Per ognuno di essi nutro affetto sincero perché scritti in un momento critico della mia vita. Cito qui il racconto “Nanà nella neve” nel quale ricostruisco in maniera verosimile la storia della mia bisnonna Maria Ranieri, madre di Nanà, che fu uccisa dai tedeschi nei primi giorni del 1944:

«Quel mattino, “all’alba del nuovo anno, per lo strano gioco dei venti e della bufera, spuntava a due passi da casa una fascina di ceppi rivestita di cristalli di ghiaccio, nel momento di quiete dopo la bufera della notte, in una specie di canale spazzato dal vento, tra la neve alta. Faceva molto freddo e l’aria limpida era silenziosa per la neve ovattata. Chissà quanto tempo passeremo al freddo, pensò la mamma e, coperta da un grosso scialle di lana di colore scuro, uscì di casa, arrancando nella neve alta; percorse i pochi metri che la dividevano dalla legna scoperta dal vento. Era merce preziosa, merce che scaldava e cucinava: poteva farci bollire le sagne nel camino, condirle con il lardo del maiale e offrirle a noi figli per raccontarci la vita. Spazzava la neve con il petto, stava per arrivare alla fascina. “Alt achtung, alt achtung, alt achtung”: per tre volte il tedesco di vedetta sul parapetto della Villa comunale perse le parole nel vento e nell’ottundimento della neve. La mamma, ansante per lo sforzo, scrollò il fascio di rami dalla poca neve che vi si era posata e con forza se lo pose su una spalla, tornando sui suoi passi verso casa. Quei ceppi umidi avrebbero crepitato nel camino con schiocchi e risate e cacciato un umore liquido come la bava. Non sentì neanche il rumore dei colpi del mitra sul suo facile bersaglio, scuro di scialle nella neve candida. Le cadde la fascina e le sfuggì la vita, la sua e un po’ della nostra. La mamma, senza parole, come usava fare quando rifletteva, si chinò su un fianco, su un banco di neve, e lì si sdraiò dandogli la sua forma di antica donna, con il volto che scrutava il cielo per capire se, il giorno dopo, la neve si sarebbe sciolta o se il ghiaccio l’avrebbe resa più dura e resistente”. 

Un certo stupore lascia il racconto Pulp’ette

La storia di Mary, misteriosa e terribile per certi versi, parlando di certe polpette evoca terribili radici di terrore che si dissolvono in tenerezza…ma qui mi fermo per non allarmare il lettore! 

Il valore dell’ombra di Gino Primavera

Da leggere. Perché? Ognuno troverà una motivazione, ma io credo che, in alcuni racconti, ce ne sia una “altra”.

 

David Ferrante

Scrittore e sociologo, appassionato studioso e divulgatore della cultura popolare. Ha all’attivo diversi scritti d’impronta sociologica tra i quali due monografie pubblicate dalla Tabula fati e vari saggi all’interno di collettanee edite dalla Franco Angeli, dall’Università d’Annunzio di Chieti, ecc.

Tra i suoi lavori dedicati agli aspetti magici e leggendari della cultura popolare, oltre a diversi racconti, il saggio Tradizioni, riti e sortilegi del 24 giugno. San Giovanni Battista nella cultura popolare abruzzese (2018-2020). È ideatore e curatore delle antologie L’Ammidia. Storie di Streghe d’Abruzzo (2019), Fate, Pandafeche e Mazzamurelli. Storie di miti, superstizioni e leggende d’Abruzzo (2020) e Magare. Storie di Streghe d’Abruzzo v.2.

Nel 2022 esce la sua prima silloge personale Il dolore della luce. Racconti di streghe, fantasmi e d’amore in cui reale e irreale, amore e crudeltà cercano un punto d’incontro e di fusione.

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