SOTTO LO SLOGAN, NIENTE

Senza un solido impianto culturale la riforma contraddice i principi costituzionali

di Ernestina Di Felice

(gia’docente di Storia e Filosofia nei Licei)

 

Una premessa: una riforma che si autodefinisce “buona” di per sè ingenera perplessità circa l’intento propagandistico di un governo che, su un tema così importante come quello della scuola, sceglie un linguaggio pubblicitario, quasi dovesse lanciare sul mercato un prodotto commerciale.

Presentata come la riforma del cambiamento, moderna e innovativa, in grado di assicurare l’efficienza, di dare le risposte più adeguate ai bisogni del nostro tempo, di  premiare il merito e di risolvere il problema del precariato, la legge sulla scuola è stata in realtà immediatamente avversata da tutto il mondo della scuola,  dove ha prodotto una mobilitazione massiccia e duratura e scioperi con percentuali altissime di adesione mai raggiunte fino ad ora.  È  stata avversata anche in Parlamento, dove è  passata  a colpi di fiducia e  con  discutibili forzature procedurali.

La sedicente “buona scuola” non dispone di un solido impianto culturale, nè di una profonda visione pedagogica e didattica. Non fa riferimento alcuno ai valori della Costituzione: non si pone il fine dell’ educazione alla cittadinanza,  alla partecipazione e all’autonomia, ignora il problema della formazione del libero pensiero critico e della capacità di autorealizzazione. Propone obbiettivi  legati ad un concetto di sapere “utile”, laddove l’utilità coincide con quella dell’azienda, l’efficienza con il mero addestramento al lavoro, la flessibilità con la capacità di adattarsi alle esigenze del mercato, non con l’apertura mentale e la capacità del soggetto di reinventarsi in modo autonomo e consapevole.

La riforma potenzia le prerogative dei Dirigenti, cui spetta il compito di individuare un  indirizzo politico in accordo con le risorse del territorio e con le imprese private e quello di attribuire crediti ai docenti, di chiamarli direttamente dal registro nazionale, con la conseguenza di annullare  di fatto la libertà d’insegnamento prevista dalla Costituzione.

All’interno di una logica decisamente privatistica, fa  pagare  i costi della scuola pubblica  ai privati, alle famiglie, alle imprese –che orienteranno inevitabilmente le scelte educative e determineranno inaccettabili differenze tra scuole- mentre prevede risorse  per la scuola privata, contro l’art. 33 della nostra Costituzione.

Secondo la riforma, lo sbandierato “merito” dei docenti non farà riferimento a standard comuni, nè sarà valutato da esperti, ma da discutibili Comitati il cui giudizio rischierà inevitabilmente di essere condizionato da elementi soggettivi e da  interessi  privati.

La riforma renziana della scuola fa dei docenti il capro espiatorio. Anticipata da una sommaria campagna denigratoria nei confronti degli  insegnanti, che vengono presentati tutti –bravi e meno bravi- come incapaci ad educare ad un mondo globalizzato, la riforma però nel contempo priva il corpo docente  di  un serio e sistematico intervento di aggiornamento e ne scredita la professionalità e la dignità.

Gli insegnanti, ai quali viene tolta la titolarità della cattedra, saranno inseriti in una rete di scuole ove, per chiamata diretta  di Dirigenti,  andranno ad insegnare materie affini o secondarie, o saranno impiegati  in attività extra curriculari  senza alcun riguardo per la continuità didattica e per la tanto decantata “qualità”.

 Il problema del precariato, che   l’Europa impone di risolvere  -visto che lo Stato italiano e’ stato condannato per aver mantenuto nel precariato docenti per 15-20 anni quando si e’ invece obbligati ad assumere  con 36 mesi di servizio- viene affrontato con un piano  che, dimenticata l’iniziale promessa di 150.000 assunzioni, di fatto ne  prevede 81-89.000, con pesanti condizioni e stipendi ben lontani da quelli europei.

Ai docenti precari  sarà offerto un incarico triennale rinnovabile. Ma essi  non sanno dove andranno ad insegnare, cosa andranno ad insegnare (visto che andranno a fare da tappabuchi per assenze brevi), rischiano spostamenti anche di mille chilometri, abbandonando famiglie, figli, genitori (i precari sono prevalentemente tra i 40”e i 50 anni).

Qual  è la logica sottesa a queste scelte?  Quali obiettivi si vogliono perseguire? Quale messaggio si vuole trasmettere?

Se nella scuola non   valgono più  le regole oggettive, ma quelle del Preside, se il docente  precario deve accettare ogni condizione, compreso il demansionamento, se viene affermata un’idea di “flessibilizzazione” che non riconosce alcun diritto acquisito, l’intento  del governo e’ evidentemente quello di giungere alla decontrattazione e di rimettere in discussione il diritto al lavoro anche  nella scuola, così come sta avvenendo in tutto  mondo del lavoro.

Se l’assunzione viene condizionata all’imposizione di una mobilità selvaggia, ad un trasferimento forzato dal Sud al Nord, nonostante i posti vacanti siano anche al Sud, dove da anni lavorano precari con supplenze annuali, il sospetto è che si voglia costringere molti precari, in particolare le donne con famiglie da accudire, a rinunciare al lavoro e a liberare posti.

 

Se non si da’ alcun riconoscimento alla continuità didattica, se si fanno insegnare discipline diverse da quelle per le quali sono state accertate le competenze, se non si liberano risorse per la scuola pubblica, la sedicente “buona scuola” e’ solo uno slogan propagandistico e la logica privatistica, che ne costituisce il fondamento, contraddice nettamente i principi della nostra Costituzione, costantemente svuotata anche dalle altre “riforme” del governo Renzi.