Dio salvi il made in … Teramo

stabilimento golden lady di GissiIl clima di disillusione e di preoccupazione generale investe anche la nostra provincia dove ci sono molte aziende in crisi o addirittura che hanno dovuto cessare la loro attività licenziando numeri elevati di dipendenti. Confrontando i dati statistici forniti dalla Camera di Commercio di Teramo abbiamo notato che nel primo trimestre del 2012 il numero di

cessazione delle imprese è molto alto e si avvicina al numero complessivo dell’anno precedente. Le cause sono sicuramente da attribuire alla congiuntura economica negativa che genera disoccupazione e licenziamenti, ma gli alti costi di gestione delle attività imprenditoriali favoriscono il fenomeno della delocalizzazione che rischia, ulteriormente, di mettere a rischio imprese e posti di lavoro. La delocalizzazione delle imprese, che fa parte del processo di internazionalizzazione delle stesse, sta subendo un processo inarrestabile; molte attività sono state, infatti, trasferite, creando non pochi problemi per i dipendenti che sono rimasti senza lavoro e senza speranze. E’ proprio l’industria manifatturiera che sta attuando massicciamente questo cambiamento e il teramano è una zona prolifera di queste attività. A questo proposito abbiamo incontrato Giovanni Timoteo della Cgil, segretario provinciale della categoria lavoratori tessili, chimici, energia e pubbliche utilità e che ha guidato, con Cisl e Uil e le rappresentanze sindacali aziendali, le trattative per salvare e salvaguardare la Golden Lady di Basciano. Ci può illustrare la situazione del settore tessile – abbigliamento nella nostraprovincia? Questo settore in passato, nel sistema industriale provinciale è stato di primaria importanza per numero di occupati e per la quota di reddito prodotta. Anzi, i dati statistici testimoniano che è stato il comparto trainante per il sistema economico teramano facendolo comparare, per molti anni, con i territori industriali del Nord-Est. Dagli anni ’80 in poi c’è stato un fiorire di attività imprenditoriali nel settore tessile – abbigliamento, ma anche nella pelletteria. Attività in prevalenza endogene, integrate da molti dei principali marchi nazionali, attratti, certamente dalle risorse pubbliche disponibili, ma anche dalla duttilità e cultura del lavoro della manodopera locale in grado di fornire risposte efficienti e di qualità alla domanda di produzione manifatturiera. Negli anni questo sistema si è sviluppato realizzando la prima voce del PIL e dell’esportazione nel territorio e contribuendo in modo decisivo alla crescita economica della provincia di Teramo. Questo ha permesso buone e diffuse opportunità di occupazione soprattutto al femminile; proprio le donne hanno maggiormente beneficiato di questo fenomeno. Purtroppo negli ultimi dieci anni questo quadro ha subito un’involuzione drammatica con una crisi che in pochi anni ha causato la chiusura di centinaia di aziende con una perdita di almeno di 10.000 posti di lavoro. Una crisi, per questo comparto, non solo contingente ma strutturale, dovuta ad un’apertura pressoché globale a nuovi mercati di produzione in assenza totale di un sistema di regole di produzione che tutelassero e proteggessero il made in Italy. Così si è arrivati alla dequalificazione del valore aggiunto che il prodotto italiano portava con sé. E questo ha comportato l’avvio di massicci processi di delocalizzazione con una fortissima riduzione dell’occupazione italiana e teramana. Basti pensare che i principali attori del settore tessile italiano come Leglhler, Miroglio, Zucchi, la Perla, Pompea, Sixty che si erano insediate nel nostro territorio con attività gestite direttamente, hanno chiuso e sono andate via. Prendiamo il caso della Golden Lady che ci riguarda più da vicino. Con la crisi ha registrato una riduzione dei fatturati e per sostenere la competizione ha abbassato i costi di produzione, delocalizzando in Serbia (caso Omsa di Faenza e Golden Lady di Gissi) oltre a una riorganizzazione delle sedi del mantovano. L’Abruzzo è stato fortemente penalizzato da questa strategia aziendale perché ha subito la chiusura di Gissi e la riduzione delle attività a Basciano. Cosa è stato fatto per cercare di evitare o quantomeno limitare queste decisioni drastiche? A Gissi il confronto tra sindacati, istituzioni edirezione dell’impresa ha portato a un progetto di riconversione che appare positivo anchese un giudizio conclusivo ci è permesso soloquando tutte le fasi del progetto saranno portatea compimento e tutti i lavoratori sarannorioccupati. Fino ad allora tutti abbiamo l’obbligo di verificare e supportare tutti i passaggi. E Basciano? Basciano rappresenta all’interno del gruppo un’esperienza produttiva e industriale quasi completa di tutte le fasi della preparazione dei prodotti basico dalla filatura al cucitura della calza. Purtroppo, da circa tre anni la crisi, la riduzione dei consumi e in parte la delocalizzazione hanno messo in difficoltà questo stabilimento. Abbiamo avuto un confronto continuo con l’azienda che ci ha permesso di gestire la riduzione di attività con la CIG (cassa integrazione) prima e poi con il contratto di solidarietà previsto fino al 28 febbraio del 2013. Resta, purtroppo, la decisione dell’azienda di cessare i reparti di cucitura manuale e tessitura intimo che potrebbe portare a un esubero strutturale di alcune decine di unità. Noi siamo coscienti che la gestione che abbiamo concordato con la quale gli eventuali esuberi vengono individuati con i lavoratori si rendono disponibili ad essere collocati in mobilità è socialmente sostenibile, ma non possiamo nascondere un punto di amarezza perchè il territorio, anche in questo caso, si trova a perdere occupazione. Per questo ci auguriamo che, di seguito al confronto instaurato con l’azienda e considerando l’approccio positivo che la stessa ha avuto anche nella riconversione di Gissi, di poter incontrare al tavolo teramano la stessa sensibilità e la stessa convinzione e determinazione operativa. Non crede che il trasferimento potrebbe considerarsi una strategia con effetto boomerang, considerato che in molti paesi novelli dell’UE anche il costo del lavoro aumenterà? Ho quasi dismesso questa speranza. Di fatto in questi anni lavoratrici e lavoratori italiani, oltre all’occupazione, hanno visto ridotto anche molto del loro potere di acquisto senza nessuna inversione dei processi di delocalizzazione. Non credo che potrebbe accadere l’effetto boomerang. Se pur presenti nel mondo processi di rivendicazione dei lavoratori in paesi che hanno fruito della delocalizzazione, penso che questi fenomeni, per portare a risultati apprezzabili, hanno bisogno di realizzare una consapevolezza sociale e di tempi lunghi che noi non possiamo permetterci. Da sindacalista come vede il futuro dei lavoratori italiani? Crisi e outsourcing sono manifestazioni che hanno scaricato negatività sui lavoratori italiani e sulla capacità della nostra società di fornire nuove e diverse opportunità, rispetto al passato, per organizzare la vita delle persone. La cosa più preoccupante è che, nonostante questi problemi siano stati denunciati da diversi anni dal sindacato in particolare, su questo terreno non si trovano iniziative, progetti degni di attenzione e alle quali attribuire fiducia e impegnarsi per invertire lo stato delle cose. Molto semplicemente, a mio avviso, quello che manca in primis è un laboratorio delle idee vero, concreto, ideale e oggettivo che la politica avrebbe il dovere di mettere in campo.