
Febbraio è il mese dell’amore, e l’amore è peccato, se il peccare è dolce. Spesso l’amore ti prende per la gola, ma sempre alla gola, e dona piacere.
Ci hanno insegnato che la gola è peccato, eppure quanto può essere dolce! Lo sapevano bene anche nei conventi, dove il piacere si celava tra sise di monache, celli di preti, loffe e antiche tentazioni.
Come scriveva Oscar Wilde: «Il peccato, come il piacere, è una questione di gusto.» In questo intreccio di desiderio e trasgressione, l’amore si manifesta nella sua forma più irresistibile, dove ogni dolce tentazione promette piacere e seduzione. E così, persino un monastero può cedere al fascino della gola.
Sise de Moneche – Andare a Guardiagrele significa anche cedere alla tentazione peccaminosa del suo dolce tipico: le sise de moneche. Nei giorni festivi è consuetudine vedere turisti e abitanti del borgo ai piedi della Maiella affollare le due antiche pasticcerie, Palmerio e Lullo, che da secoli custodiscono il segreto di questa specialità.
Due dischi di pan di Spagna che ricordano tre mammelle colme di latte, quello della crema pasticcera che le farcisce, e ricoperti da un velo di zucchero candido, bianco come un petto che non ha mai visto la luce.
Tre seni come le tre cime della Maiella — Martellese, Acquaviva e Murella — imbiancate dalla neve. «Con l’uberi mammelle, è la montagna madre», scrisse Cesare De Titta. Oppure tre seni come quelli delle monache, fasciati e compressi così tanto da apparire come se ne avessero tre, per nascondere le forme e la sensualità. O, più semplicemente, dolci votivi probabilmente legati al culto di Sant’Agata, preparati e donati dalle Clarisse del convento di Guardiagrele, quelle con tre mammelle, per capirci.
Che resti il mistero sul nome, e resti la voglia di visitare Guardiagrele con la curiosità pruriginosa di addentare una di queste morbide brioches. Mangiarle sul posto, prima che perdano il loro virgineo candore, prima che lo zucchero a velo si dissolva nel viaggio. Tuffarsi incoscientemente, come un adolescente eccitato, tra le tre sommità, sporcandosi il naso, la bocca, i vestiti con quella polvere di dolce purezza.
E che resti sempre il piacere di entrare in una delle due pasticcerie e, imbarazzati e titubanti, chiedere:
«Me ne dà una? Una brioche… una Tre Monti… Ma sì, mi dia una sise de moneche!»
Celli di Prevete – Conosciuti anche come Pensieri del Poeta, questi dolci affondano le radici nella tradizione abruzzese. La loro origine risale a un tempo in cui i confetti ancora non esistevano e i matrimoni si celebravano con dolci carichi di significato e sapore. Ancora oggi, durante la festa dello Sposalizio di San Giuseppe con la Vergine Maria, che si tiene ogni anno il 23 gennaio a San Martino sulla Marrucina, vengono offerti come simbolo di unione e benedizione.
Un incontro tra sacro e profano, tra terra e tavola, tra miele e noci, in un matrimonio che non ha bisogno di anelli, ma di dolci che raccontano una storia antica. Nel frattempo, le statue di Giuseppe e Maria, in un rito unico in Italia, attraversano il paese in processione fino a incontrarsi e sposarsi. La tradizione vuole che, durante la messa, le coppie rinnovino i loro voti, suggellando un’unione che sa di sacro e di romantico, di devozione e di passione.
E il pensiero corre a chi unisce, e che ogni tanto pecca anche lui: a lu celle de prevete. Ha una forma allungata e un colore bianco candido, e il gioco di parole appare irresistibile e lo trasforma in simbolo di prolificità e buon auspicio per gli sposi.
Moglie e marito si guardano con gli occhi dell’amore e i sorrisi del peccato, e cosa potrebbe celebrare meglio tanta magia se non i Pensieri del Poeta?
Loffe delle Monache – Tre dischi di pasta fritta, intervallati da uno strato di crema pasticcera gialla e uno al cioccolato, compongono la struttura delle loffe delle monache, dolce tradizionale di Sant’Omero, in provincia di Teramo. Un nome dolcemente trasgressivo, che si presta al gioco e all’ironia. Ma hanno davvero un legame con quei silenziosi venticelli che scompongono le vesti monacali?
Più probabilmente, il nome deriva dall’offa degli antichi Romani, una piccola focaccia di farro, da cui offella: una pasta dolce, un pasticcino solitamente composto da due dischetti di pasta frolla sovrapposti con un ripieno di marmellata, marzapane o crema, proprio come in questo caso. Dunque, dolci offe preparate dalle monache? O offerte a loro? Qualunque sia la verità, una nota di maliziosa dissacrazione rimane.
«Tu di tutte le infamie ti lordi la tua bocca di mastino; e sempre tu sei pronto ad addentare fino al sangue e all’osso se non ricevi l’offa», scriveva Gabriele D’Annunzio ne La fiaccola sotto il moggio. L’offa era un dono per ottenere favori, per placare l’avidità o per comprare l’appoggio di qualcuno. Proprio come nell’Eneide, quando la Sibilla offre a Cerbero una focaccia per farlo assopire e aprire il passaggio verso gli inferi.
Se dunque non sono loffe, perché allora queste offe fatte dalle, o alle, monache? Quale assopimento si cercava? E nelle orecchie riecheggiano le parole de L’elisir d’amore di Donizetti:
«Egli è un’offa seducente.
Pei guardiani scrupolosi.
È un sonnifero eccellente.
Per le vecchie, pei gelosi.
Dà coraggio alle figliuole.
Che han paura a dormir sole.
Svegliarino è per l’amore…»
E così, tra le mani che stringono dolci peccaminosi e le labbra che si bagnano di miele e zucchero, l’amore si fa peccato e il peccato si trasforma in piacere. La gola è il vero tempio della tentazione, dove ogni morso è un atto di ribellione contro la virtù e ogni dolce è un simbolo di unione sacra e profana. In questi dolci, simbolo di un amore che non conosce limiti, si nasconde la verità di un mondo che, come le monache nei conventi, sa che la dolcezza è un’arte, ma anche un peccato che rende la vita più intensa, più sensuale, più viva. Perché l’amore, come il peccato, non è mai semplice, ma sempre un atto di coraggio, di desiderio, di passione. E nel dolce, nell’amore e nel peccato, si cela l’eterna verità: solo chi osa, chi si perde, chi si corrompe, può davvero assaporare il piacere della vita.