

Nel suo canto a Monteluco, Anna Manna, sempre sensibile a questi temi che sono i temi stessi del vivere il presente, supera, se possibile, se stessa, toccando corde di intimità profonda e diventando essa stessa parte del bosco sacro che sovrasta Spoleto, come la quercia dalla cui ferita, inaspettatamente, fiorisce il biancospino, suggerendo all’autrice, attenta ai fenomeni della natura, una riflessione niente affatto ultronea: “La natura ha scelto di risorgere/ nell’angolo più buio/ nello spazio più umile/ per lanciare sfide immacolate/ per sfuggire alla morte”.
La sacralità di Monteluco, che si perpetua da secoli, il mistero del suo bosco, dove ancora sembrano correre, leggiadre, le ninfe della tradizione pagana cui si lega, in modo meraviglioso, con il conventino francescano, il messaggio cristiano (cieli nuovi e terre nuove; nessuna distruzione del passato ma ri-creazione), è materia di canto inedito, direi quasi inusuale, che solo poteva sgorgare da un’animo sensibile come quello della Poetessa delle “Rosse pergamene” che presta il suo respiro al “fiato” del bosco perché la sua vita continui.
E’ nel bosco che, proprio in ragione della sua sacralità, fioriscono gli amori, torna la visione di incantamenti primi, sorgono albe e tramonti che segnano lo stupore quotidiano, si succedono le stagioni segnalando palingenesi quotidiane che solo può avvertire chi solo, della natura, è parte viva così come l’autrice appare.
Il bosco è vita, respiro, ansimo parossistico. Ecco perché per viverlo, occorre che si diventi sua parte: e allora “bastano pochi lampi di sguardi/ e fresche ed antiche emozioni/ per sfiorare l’eterno”.
Per diventare bosco l’anima deve farsi sua prigioniera, vivere nell’eremo arboreo del distacco: in basso, la città, diventa spettatrice silenziosa per poter godere anch’essa dell’estasi e rinascere a nuova vita.
La poesia di Anna Manna è allora poesia dell’anima e del luogo dell’anima.