L’Europa piange le vittime dell’ISIS ma si mostra fragile, divisa ed incapace nel prevenire e difendersi dal terrorismo

Se è vero che “il sonno della ragione genera mostri”, è altrettanto chiaro che senza memoria ragionare diventa un’impresa ardua se non addirittura impossibile. Allora bisogna attivare il backstage degli eventi accaduti sullo scacchiere geopolitico negli ultimi anni, per risalire all’inizio di questa tragica escalation del terrorismo islamico che tanto sangue continua a  mietere in Africa, in Asia, in Medio Oriente, e ormai con sciagurata frequenza anche in Europa.

Lo sciame di attentati terroristici in atto segna il fallimento della politica e delle intelligence europee; dobbiamo con realismo e grande disappunto registrare che dopo tanti vertici, convocati per organizzare un minimo di concreta cooperazione a livello continentale, l’Europa si è mostrata esitante, priva di una suo progetto politico ma cosa ancora più grave priva di una sua strategia a difesa dei cittadini e dei numerosi obiettivi sensibili presenti in tutte le grandi Nazioni Europee. Un dato per tutti può considerarsi esaustivo: non si è riusciti ad oggi a creare un Servizio investigativo unico a livello europeo con la conseguenza che gli organi di polizia, prevenzione, controllo e repressione non sono in grado di scambiarsi informazioni di primissima importanza per la sicurezza degli europei; ma non è la sola disfunzione, se ne potrebbero sciorinare a iosa come il fatto che negli aeroporti può entrare chiunque; non ci sono controlli di sorta, questi vengono effettuati solo all’imbarco. 

Nei numerosi incontri tra i partner europei, che si sono conclusi quasi sempre con un nulla di fatto, è prevalsa a lettere cubitali la sfiducia e la concorrenza tra i diversi Paesi dell’Unione a tutto vantaggio dei terroristi, i quali, invece, hanno potuto e possono avvalersi di una capillare rete di protezioni e connivenze sul territorio. Da questa tragedia, che ci lascia inorriditi e senza parole, emerge l’incapacità dell’Europa di fare squadra, di individuare strategie e percorsi comuni nell’accogliere i flussi  degli immigrati, tra barricate, muri metallici, respingimenti, hotspot mai realizzati, falle enormi nei controlli, terroristi che salgono e scendono dagli aerei a proprio piacimento, il fallimento del progetto Frontex; l’incapacità di dialogare e trovare soluzioni diplomatiche concordate, ha fatto si che ogni Nazione Europea in questa tragicommedia che è ormai diventata il fenomeno dell’immigrazione se ne andasse per proprio conto. L’Europa non può dirsi colta di sorpresa da questa tragedia.

Pensando alle sofisticatissime attrezzature per la difesa e l’attacco di cui dispongono tutte le polizie europee, gli investimenti rilevanti per l’aggiornamento delle tecniche e dei sistemi di difesa oggi possiamo affermare che non esistono roccaforti impenetrabili, piuttosto ci sono enclave che si è lasciato che nascessero e si consolidassero ai margini del tessuto urbano e sociale delle nostre capitali; un problema ben noto, vecchio di decenni che andava, però, messo sotto controllo e monitorato per tempo. 

Se il terrorismo colpisce anche in Europa, infatti, è perché si è guardato troppo al fronte esterno, trascurando così quanto accadeva nel complesso tessuto sociale delle periferie di casa nostra. Questi tragici eventi dovrebbero insegnarci che costruire ghetti non solo non contribuisce ad integrare gli immigrati, ma rischia di consegnare gran parte di loro alla criminalità e al terrorismo internazionale.

È dunque necessario attuare una politica di “incontro di civiltà”; qui non servono atteggiamenti demagogici o del tipo  “noi siamo i primi della classe” né ha senso  annullare le differenze esistenti e di cui responsabilmente occorre prendere atto a beneficio di un anonimo melting pot. Piuttosto, l’Europa ha bisogno di riscoprire sé stessa, smettendo di rifugiarsi in quel relativismo culturale che divide, non aiuta a creare ponti e ad avviare un dialogo/confronto permanente tra pari; vi sono grandi patrimoni culturali comuni che vanno difesi e tutelati.

La storia recente, peraltro, ci offre l’occasione per una riflessione seria e profonda per comprendere e capire il livello di complicità internazionale che ruota intorno al terrorismo e che se metabolizzato potrebbe aiutare le comunità internazionali a non ripetere errori che si sono rivelati fatali.

Dopo l’attacco del 2001 e la distruzione delle Torri gemelle con migliaia di morti gli Stati Uniti, che hanno mostrato in quella circostanza (nonostante fosse la prima ed incontrastata potenza mondiale) tutta la fragilità dei loro sistemi difensivi (i terroristi avevano come obiettivi anche il Pentagono e la Casa Bianca), hanno approvato la linea dura dichiarando guerra totale al terrorismo internazionale che, ad essere sinceri, non solo non ha reso il mondo più sicuro, ma ha portato la violenza dei terroristi nelle case degli europei. 

Nel parlare di complicità internazionale mi viene in mente un dato sconvolgente e cioè che gli autori degli attentati dell’11 settembre – Osama Bin Laden e i talebani – erano, guarda caso, alleati degli americani negli anni ’80 quando c’era da combattere l’Armata Rossa in Afghanistan; poi con la guerra all’Iraq del 2003 la mappa del terrorismo si è ulteriormente modificata e complicata, il temuto gruppo terroristico di Al Qaeda, da cui è poi nato l’Isis, si è spostato dall’Afghanistan in Mesopotamia e i gruppi jihadisti si sono potuti moltiplicare indisturbati e a dismisura. Sono informazioni che non abbiamo rubato ai Servizi segreti, sono informazioni che hanno fatto il giro del mondo, su questi dati sono stati scritti memoriali, opere enciclopediche dedicate a come sradicare il terrorismo, sono state mobilitati fior fiore di strateghi ed esperti in strategie antiterroristiche e da ultimo anti jihadiste, ma i risultati di oggi ci dicono che gli obiettivi non sono stati raggiunti.

D’altra parte lo ammette lo stesse Barack Obama quando afferma che “L’America  è in condizioni di combattere e di distruggere l’ISIS”. 

Una buona notizia, solo che qui una domanda sorge spontanea: perché l’America non si è mossa per tempo in questa direzione? Perché ha lasciato l’Europa da sola pur rivendicando amicizia e solidarietà storiche con molte delle Nazioni Europee. Giova all’America un’Europa debole e indifesa abbisognevole di aiuti e protezioni o torna più utile poter contare su un’Europa forte, senza paura e determinata nel combattere il terrorismo? Altro tema che non può lasciarci indifferenti è quello dell’incredibile flusso di finanziamenti di cui dispone il terrorismo islamico, e che gli consente il reclutamento di migliaia e migliaia di  foreign fighters, di acquistare le armi più sofisticare, di gestire le basi logistiche, di potersi spostare da una nazione all’altra con ingenti mezzi organizzativi.

Anche in questo caso i malpensanti sostengono che i finanziamenti arrivano anche dall’occidente e citano una notizia che a suo tempo aveva scatenato una autentica bagarre diplomatica: “Gli Stati Uniti e la Francia nel 2013 progettavano di bombardare il regime di Bashar al-Assad in Siria, approvando di fatto che la Turchia aprisse un‘autostrada della jihad’ dalla quale sono passati migliaia di terroristi.

Forse l’Isis oggi si sta vendicando delle promesse mancate dell’Occidente, cioè sperava che arrivasse un aiuto per far fuori il regime di Damasco”. E’ questa una occasione unica, forse irripetibile per l’Europa, saper mettere da parte gli egoismi e i nazionalismi,  la voglia di primeggiare a tutti i costi per creare le condizioni per lavorare insieme per il bene degli europei e dell’umanità. “Errare humanum est perseverare autem diabolicum et terzia non datur”.

Giacomo Marcario