Il nostro fallimento non dipende dalle sconfitte che abbiamo subito, ma…

dalle discussioni che non abbiamo mai fatto” (Berna, graffito in un centro giovanile)

 

Mi piace molto la citazione che ho posto in epigrafe.

Quando la leggi la prima volta, sembra talmente vera e giusta da risultare quasi banale, scontata.
Ma le cose non stanno esattamente così. Mi riferisco soprattutto al fatto che la seconda metà della frase è asimmetrica: il contrario di sconfitte è vittorie.

Ovviamente, non avrebbe avuto senso scrivere che il fallimento di qualcuno dipende dalle vittorie che
non ha mai ottenuto. Eppure, dopo la virgola, mi sarei aspettato di trovare un riferimento “alle battaglie che non abbiamo mai combattuto” piuttosto che alle discussioni che non abbiamo mai fatto.

Perché, come amava ripetere Ernesto Guevara – detto il Che-“le battaglie non si perdono, si vincono sempre”. Mettiamola così: se proviamo a fare qualcosa abbiamo almeno il cinquanta per cento di possibilità di riuscire, ma se voltiamo la testa dall’altra parte ed evitiamo di andare in battaglia, possiamo essere certi che non ce la faremo mai.

Per questo motivo, si dice che arrivati ad una certa età è meglio avere rimorsi piuttosto che rimpianti.

Ad ogni modo, la frase che ho citato esprime qualcosa di più importante del “semplice”: abbiamo sbagliato perché abbiamo rinunciato a lottare.

Silence, Please! La frase che ho citato invita dunque a discutere, mentre le persone, troppo spesso, scelgono il silenzio: la cosa più odiosa e stupida in assoluto – con buona pace di molti lungometraggi esistenzialisti francesi.

Nella maggior parte dei casi, il silenzio non è elegante, non è signifi cativo, non è etico. Il silenzio è
solo la cosa più facile e borghese che esista.
Quando penso che stai sbagliando, io ho il dovere di prenderti da parte e costringerti a parlare. Ho il dovere di dirti le cose che non vorresti sentirti dire.

Perché si cresce “in opposizione”. Perché il mio pensiero ostile vuole essere l’ostacolo, il gradino sul quale appoggerai il tuo piede per salire più in alto. Perché un sinonimo di “rispondere” è “contestare”.
Perché noi viviamo nella società del politicamente corretto, in cui alcune cose esistono, ma non possono essere dette.
Ci illudiamo che, non chiamando le cose con il proprio nome, queste cesseranno progressivamente di esistere per trasformarsi magicamente in qualcosa di più bello e garbato.

Ma i problemi non si risolvono rendendoli invisibili.
Anzi. Sotto altro e diverso punto di vista, la gente discute molto, ma lo fa nei luoghi sbagliati, nei modi sbagliati, per i motivi sbagliati e, soprattutto, con le persone sbagliate.
Basta fare un giro su internet per rendersene conto. Gli utenti di Facebook e Youtube danno continuamente vita ad arditissime ed agguerrite battaglie teoretiche, spesso singolarmente, ancor più spesso, in gruppo.

“Tu da che parte stai, con Samantha o con Selvaggia?”;

“Questo gruppo non fa vero Rap”;

“Se Di Caprio non ha mai vinto un Oscar è perché il mio pesce rosso recita meglio di lui”. E le foibe? E i Marò?

Dietro ad uno schermo, protetti dalla foglia di fico di un nickname, sono tutti leoni, pronti a combattere e morire per le idee in cui credono – non importa quanto stupide ed assurde esse siano.
Ma la verità è che queste persone scrivono solo per sfogare la propria aggressività repressa, non sono in alcun modo interessate al dialogo. Non sono di certo queste le discussioni che fanno crescere.

Primo: le discussioni importanti si fanno in privato – evitando che ci sia un qualsiasi tipo di pubblico pronto a schierarsi da una parte o dall’altra – e, se possibile, dal vivo.

Secondo: le discussioni importanti si fanno scegliendo bene le parole, perché tanto più è serio l’oggetto della discussione tanto più facilmente si rischia di degenerare.

Terzo: una cosa fondamentale che insegnano ai bambini che imparano uno sport di squadra come il basket o il calcio è che in campo non si grida.

Perché chi parla, perde fiato. Dobbiamo scegliere con cura le nostre battaglie, nessuno ci ridarà gli anni che abbiamo perso a discutere sul nulla.

Quarto: molte persone preferiscono passare ore a discutere con uno sconosciuto in un bar , o su internet, piuttosto che redarguire i propri figli. Ci sono tre modi per rovinare la vita di un figlio:

1) criticare continuamente tutto quello che fa – a prescindere;

2) ignorare deliberatamente qualsiasi cosa faccia;

3) adulare incondizionatamente ogni sua azione.

Se il primo ed il secondo errore provocano danni, il terzo è letale. Adulare incondizionatamente un figlio è il modo migliore per farne uno stolto, confondendo l’amore con il quieto vivere ed evitando accuratamente che cresca.
Le persone con cui dovremmo discutere maggiormente sono proprio le persone che ci stanno vicino, quelle che rispettiamo ed amiamo.

Tornando all’inizio di questo articolo, e concludendo, io credo che la frase da cui siamo partiti si riferisca alle discussioni che non abbiamo mai voluto fare sulle nostre idee.
A me sembra che solo in questo modo il riferimento al fallimento possa acquistare un senso.
Non è vero che le persone anziane non hanno voglia di mettersi in discussione, ma è vero piuttosto che le persone invecchiano quando perdono la voglia di mettersi in discussione.

Nel corso della nostra vita, sarà pur capitato che qualcuno venisse a bussare alla porta di casa per farci notare che ci stavamo comportando in maniera sbagliata. Se è accaduto, è probabile che in quella occasione abbiamo reagito da stupidi: negando istintivamente di aver commesso un errore al posto di restare sereni o, tutt’al più,
mostrare gratitudine. La cosa più bella che possiamo ricevere è una critica.

Se viene fatta in buona fede, ogni critica merita di essere presa sul serio: è un atto d’amore ed un favore.

Perché solo un cretino potrebbe aiutare un nemico a migliorare se stesso.