Né eutanasia né accanimento terapeutico

nè eutanasia, nè accanimento terapeuticodon Massimiliano Orfei. La parola eutanasia deriva dal greco eu-thanatos e significa letteralmente “bella morte”. Originariamente indicava la bella morte che compete all’uomo saggio o una morte non dolorosa.  Attualmente il termine ha diversi significati e questo è il primo ostacolo per una corretta comprensione del problema. La Congregazione per la Dottrina della Fede si esprime così: «Per eutanasia si intende un’azione

o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati.» Quindi l’eutanasia non consiste solo nel compiere una azione finalizzata a sopprimere la vita di un individuo, ma anche nell’ometterne una che potrebbe salvarlo. Sul piano etico in definitiva, non c’è differenza tra annegare un uomo in mare o lasciare che anneghi omettendo di aiutarlo. La somministrazione di sostanze narcotiche o tossiche in dosi mortali a un malato terminale o la sospensione di terapie ordinarie e ancora utili quali l’idratazione e la nutrizione artificiale, sarebbero una vera e propria eutanasia. L’accanimento terapeutico invece, consiste, nell’esecuzione di trattamenti inefficaci e sproporzionati in relazione agli obiettivi della condizione specifica del malato.
« L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente. » (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2278) ’eutanasia si situa a livello di intenzioni e metodi: si parla di eutanasia quando si ha l’intenzione di porre fine alla vita o accelerare la morte di una persona. Nulla vieta, quindi, di somministrare farmaci analgesici per alleviare la sofferenza del malato, anche se questo ha come effetto secondario l’anticipazione della morte. Non c’è inoltre eutanasia quando si omettono trattamenti inutili o addirittura dannosi prolungando in modo insensato la fase terminale. Il medico non è tenuto a combattere la morte costi quello che costi. Il moribondo, dal canto suo, ha il diritto di non soffrire inutilmente; un eventuale cedere non è segno di sconfitta ma accettazione libera della sua creaturalità. Cosa succede quando è il malato a chiedere di porre fine alla propria vita per evitare dolori insopportabili? Le suppliche dei malati molto gravi che talvolta invocano la morte, non devono essere confuse con una chiara volontà di eutanasia: esse sono quasi sempre una richiesta di aiuto e di affetto. Oltre alle cure mediche ciò di cui l’ammalato ha bisogno è l’amore e il calore umano col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri. A volte il desiderio di porre termine alla vita non è altro che un desiderio di disperazione derivante da una precedente morte sociale. Il malato terminale non è mai un “caso” clinico o un problema da risolvere ma un uomo che affronta, spesso in solitudine,  un momento decisivo e delicatissimo della sua esistenza.