DALLA PANTAFICA ALL’AI INTERVISTA A DAVID FERRANTE SULLE RADICI, L’ANIMA E LA MAGIA DELL’ABRUZZO

Il 31 ottobre sarà pubblicata la videointervista sui canali social

di Mario Falasca*

All’interno delle varie identità culturali e regionali, uno spazio importante è occupato dal folklore e dalle mitologie affollate di riti, creature, superstizioni e credenze che hanno plasmato comportamenti e atteggiamenti che attiviamo, inconsapevolmente, anche nel quotidiano. È un’eredità invisibile ma presente, che attraversa gesti, parole, simboli, stratificata nella memoria collettiva e nei territori.

David Ferrante, sociologo e saggista e scrittore, esplora da anni questo patrimonio immateriale, coniugando il rigore della ricerca sociale con una sensibilità narrativa capace di ridare voce a figure semidimenticate e a pratiche arcaiche. I suoi studi e racconti – dalla pandàfeche agli antichi sortilegi del solstizio d’estate – disegnano una mappa antropologica del sacro e del magico in Abruzzo, dove il mondo contadino, la fede popolare e la paura dell’ignoto si intrecciano in una trama che ancora oggi (volente o nolente) ci appartiene.

In questa intervista, ci addentreremo con lui in un universo simbolico fatto di erbe e parole, sogni e incubi, santi e spiriti, per riscoprire la potenza generativa del folklore non come reliquia del passato, ma come chiave attuale di lettura del presente, richiamando alla memoria quei ricordi dei nostri nonni, appartenenti a una fase pre-industriale in cui il magico albergava ancora nelle case.

Perché queste storie non sono solo fiabe antiche: sono dispositivi culturali che continuano a definire chi siamo, come agiamo, cosa temiamo e a cosa affidiamo, ancora oggi, le nostre speranze.

David Ferrante, il tuo nome è sempre più associato alla ricerca e alla divulgazione del folklore abruzzese, un universo di credenze, riti e creature misteriose. Come nasce questo interesse e in che modo la tua formazione da sociologo influenza il tuo approccio?

«L’interesse è nato da una passione personale per l’occulto e da un amore viscerale per la mia terra. Ma il fuoco si è acceso grazie ai racconti dei miei nonni. Divulgare quelle storie, far stampare il loro ricordo, è un modo per renderli eterni.

La sociologia, in questo, è fondamentale. Non mi ha fornito solo un metodo di ricerca, ma una lente per guardare al folklore non come a una semplice raccolta di fiabe, ma come a un sistema culturale complesso. È l’espressione di una psiche collettiva che, attraverso miti e leggende, plasma le comunità e riflette le loro paure, speranze e visioni del mondo. Per comprendere davvero un popolo, bisogna scavare anche in questa memoria invisibile.»

C’è un incontro in particolare, con una storia o un rito, che ti ha spinto a indagare più a fondo?

«Senza dubbio, l’incontro con la Pantafica. È stata una figura che mi ha non solo affascinato, ma quasi chiamato. La incontrai un paio di volte da bambino, quelle notti in cui il sonno ti paralizza. Il primo racconto di mia nonna sulle creature della notte. Ed è anche il primo racconto sul tema Abruzzo magico che ho scritto. La Pantafica è l’incubo personificato, il peso sul petto che ti toglie il respiro. È stato l’inizio di tutto.»

Il folklore abruzzese su quali tematiche principali si sviluppa?

«È un universo profondamente legato al mondo contadino e alla sua percezione della natura come entità viva e potente. Le tematiche cardine ruotano attorno a: il ciclo della vita e della morte: i riti di passaggio, il culto degli antenati, le credenze sui defunti; la natura magica: il potere curativo o malefico delle erbe, delle acque (come quelle del solstizio d’estate), degli elementi; il rapporto con l’invisibile: fate (magare), folletti e spiriti che coesistono con la realtà quotidiana; la commistione tra sacro e profano: una religiosità popolare che fede cristiana e antichi riti pagani, come si vede già nel rito dell’ammidia.»

Parlando di creature, è possibile tracciare una mappa del “bestiario” dell’immaginario abruzzese?

«L’immaginario dei nostri nonni era popolato da esseri come il lupo mannaro, legato ai cicli lunari e alle pulsioni selvagge; il basilisco, il serpentello con due teste nato da un satanico uovo di gallo, simbolo del male strisciante; e il drago di Atessa, una leggenda radicata in un luogo specifico che parla della lotta tra San Leucio e il Drago, della lotta eterna tra il bene e il male,. Ogni creatura è un tassello di una visione del mondo precisa.»

Oltre alle mitologie, esisteva un rapporto pratico con queste credenze, legato a protezione, guarigione o malefici. Di quali riti possiamo parlare?

«Il rapporto era estremamente concreto. In un’epoca senza medicine accessibili, il folklore offriva un prontuario magico per la sopravvivenza. Si praticavano riti di guarigione con erbe e formule, si appendevano oggetti alle porte per proteggere la casa e il bestiame, si seguivano rituali propiziatori per il raccolto. Esistevano anche malefici, usati per risolvere dispute personali. Era un sistema basato su una fiducia assoluta nella magia dei simboli, dove ogni azione trovava una sua controparte rituale.»

Hai un aneddoto personale che ti è particolarmente caro?

«Da bambino fui colpito da quello che mia nonna definì il malocchio. La vidi preparare la scodella d’acqua in cui versò l’olio per leggere l’invidia. Ricordo i globuli d’olio che si scomponevano, la sua formula dell’ammidia sussurrata, e i suoi tre, profondi sbadigli attraverso i quali il male abbandonava il mio corpo. Fu uno dei primi passi verso questo mondo occulto e misterioso. Puro mistero e timore. In età adulta iniziai a studiare questo mondo fino a capire che non poteva andare perso e decisi di alimentarne il ricordo e non permettere che queste pratiche cadessero nell’oblio.»

Spesso si pensa al folklore come a qualcosa di relegato al passato. Invece, tu sostieni che sia ancora vivo. Dove lo ritroviamo oggi?

«Alcune esigenze non sono mai morte, si sono solo trasformate. Oggi non temiamo più le streghe, ma crediamo a teorie che spiegano il mondo con forze oscure e invisibili. Non lanciamo più sortilegi d’amore, ma affidiamo le nostre speranze a riti moderni come la legge di attrazione. Sono tutte manifestazioni del nostro bisogno atavico di dare un senso all’ignoto e di controllare il caos.»

Sacro e profano in Abruzzo si fondono continuamente. Come nasce questa commistione e a cosa ha portato?

«È la quintessenza del nostro spirito magico. Nasce dall’incontro tra la fede cristiana e gli antichi culti pagani, agricoli e tellurici. Il Cristianesimo ha assorbito e riplasmato i riti preesistenti, attribuendo ai santi le funzioni che un tempo erano delle divinità. Questa fusione è presente anche in rituali magici come le formule per il malocchio e le giaculatorie della medicina popolare: s’invocano la Santissima Trinità, la Madonna e i santi in un contesto stregonesco. E ha portato a una religiosità visceralmente pratica, dove si chiede la grazia con la stessa intensità con cui un tempo s’invocavano gli spiriti della terra.»

Che valore positivo possiamo attribuire oggi al revival di queste tradizioni?

«Un valore identitario enorme. In un mondo globalizzato e digitale, riscoprire le nostre radici folcloriche è un atto di resistenza culturale. Ci offre un senso di appartenenza e un legame con i nostri antenati. Ci insegna che la vera ricchezza non sta nell’omologazione, ma nella custodia delle nostre uniche, irripetibili specificità.»

Questa riscoperta rischia di diventare una “folklorizzazione”, uno spettacolo svuotato di significato. Qual è l’antidoto?

«L’antidoto è tornare alla radice autentica. La folklorizzazione svuota la tradizione per venderla come prodotto. Noi dobbiamo praticare l’educazione, la ricerca rigorosa e la divulgazione onesta. Bisogna mostrare il lato complesso, a volte scomodo e oscuro del folklore, non solo quello pittoresco. Significa spiegare il perché di un rito, il suo significato simbolico e sociale. Solo così eviteremo che diventi un’attrattiva turistica senza anima.»

Possiamo quindi leggere questo ritorno al folklore come una forma di resistenza culturale?

«Assolutamente sì. È un atto di affermazione identitaria in un mondo che ci spinge all’uniformità. Riappropriarci delle nostre tradizioni è come dire: “Io ho le mie radici, le mie storie, e sono uniche”. È un modo per mantenere viva la complessità e la diversità che la globalizzazione appiattisce. È un ritorno a un sapere ancestrale che ci ricorda chi siamo veramente. Deve esserci convivenza rispettosa di culture e non l’omologazione.»

Se dovessi racchiudere in un’immagine la cultura magica abruzzese, come la rappresenteresti?

«La rappresenterei con l’immagine di una vecchia contadina seduta accanto al focolare. Il viso solcato da rughe e gli occhi che riflettono la luce del fuoco, ma anche le ombre delle storie che custodisce. Con le sue mani callose e screpolate, traccia croci sulla fronte di un bambino. È l’immagine della saggezza antica che si trasmette, connessa alla terra e all’invisibile, un faro che illumina le nostre vite.»

Tutti i racconti e le testimonianze che raccogli sono un patrimonio carico di significato. In un’epoca in cui parliamo con l’Intelligenza Artificiale, cosa dobbiamo farne di queste informazioni?

«Dobbiamo usarle come una bussola per la nostra umanità. In un’epoca in cui l’AI può replicare qualsiasi dato, le nostre storie e le nostre tradizioni sono ciò che ci rendono irripetibilmente umani. Sono il nostro DNA culturale, qualcosa che la tecnologia non può creare dal nulla. Il folklore non è un dato che un algoritmo può elaborare; è un’esperienza vissuta che ci connette al nostro passato. È la nostra anima. E nelle tradizioni c’è proprio questo: l’anima e il sangue di un popolo. Elementi non matematici. La stessa anima e lo stesso sangue che cerco di mettere nelle mie narrazioni e nei miei racconti.

Invito sempre a credere nella magia: perché se viviamo di solo razionale, egoismo e utile, siamo corpi senza anima. L’unica cosa che ci permette di evolvere è l’irrazionale, la capacità di credere che possa esistere ciò che solo la fantasia può immaginare.»

 

* (Designer e ricercatore – Opera Rotas)

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DAVID FERRANTE è sociologo e scrittore, appassionato studioso e divulgatore della cultura popolare. Come sociologo, ha pubblicato diverse monografie e saggi tra cui tre monografie e vari saggi in collettanee edite da Franco Angeli e dall’Università d’Annunzio di Chieti.

È particolarmente noto come divulgatore e autore di opere che recuperano il patrimonio leggendario abruzzese. Tra i suoi saggi chiave spicca “Tradizioni, riti e sortilegi del 24 giugno. San Giovanni Battista nella cultura popolare abruzzese”. È ideatore e curatore delle antologie tematiche di successo come: “L’Ammidia. Storie di Streghe d’Abruzzo”, “Fate, Pandafeche e Mazzamurelli. Storie di miti, superstizioni e leggende d’Abruzzo”, “Magare. Storie di Streghe d’Abruzzo v.2” e “Anime Sperse. Storie di fantasmi d’Abruzzo e Molise”.

La sua opera personale, “Il dolore della luce. Racconti di streghe, fantasmi e d’amore,” ha visto la seconda edizione nel 2024 (edito da Tabula Fati).

Per le edizioni Solfanelli, nel 2025, ha pubblicato il saggio “Sicurezza locale. L’Amministrazione della sicurezza urbana nell’evoluzione storica e giuridica della Polizia Municipale” e curato la seconda edizione integrale del libro “Primo Levi, Abruzzo forte e gentile. Impressioni d’occhio e di cuore” del 1882.

www.davidferrante.it

www.AbruzzoMagico.it

 

OPERA ROTAS è un progetto di ricerca etnografica basata su interviste. Ideato da Mario Falasca, il format è la continuazione della ricerca in ambito universitario, iniziato per acquisire dati sul patrimonio immateriale locale da utilizzare come contenuto per il progetto di tesi in Advanced Design. Fondamentale il supporto e la collaborazione con il fotografo e videomaker Simone Saccomandi, che ha portato alla creazione di piccoli documentari/interviste disponibili sul canale YouTube @the.operarotas.

www.youtube.com/@the.operarotas