CHE SENSO HA VIVERE A TERAMO, ripiegata su sè stessa.

Se l’Aquila stenta a spiccare di nuovo il suo volo dopo la “caduta” di 6 anni fa, Teramo sembra non aver alcuna voglia di alzarsi dal letto.

Apatica e distante, ripiegata su se stessa. Noiosa nelle sue argomentazioni sul degrado, sull’immobilismo, sulla paralisi che la opprime e che impedisce il movimento anche a chi qualche sprizzo di vita sembra ancora averlo.

La colpa è sempre di qualcos’altro, di qualcun altro. La colpa è sempre esterna.

Neghiamo l’evidenza persino a noi stessi. Che senso ha oggi una città come Teramo?

Niente lavoro, niente cultura, niente sperimentazione, niente vitacittadina, niente politica, niente commercio, niente industria, niente progetti, niente cambiamento.

Niente passeggio, niente “vasche”. 

In Corso San Giorgio oggi si parla cinese, in quei 4 negozi ancora aperti. Vetrine chiuse da giornali vecchi di 6 anni,  Anziani che girano in bus-navetta. Pochi ragazzi, per lo più seduti sulle scale del Duomo rapiti dai loro cellulari. 

Ma le chiacchiere (poche) che ancora si sentono sono sempre le stesse. “È colpa dei politici, è colpa di Tizio, è colpa di Caio”. Come se qualcuno,  venendo a casa nostra ci facesse  notare la sciatteria, il disordine, o la poca pulizia in cui viviamo,   e noi rispondessimo: “non è colpa mia. È colpa del Comune che non mi manda una colf”. 

Noi non li chiamavamo happy hours o aperistreet. Per noi ragazzi degli anni 70-80 il social network più diffuso era la “vasca” di Corso San Giorgio, prima e dopo cena.

Prima per i giovanissimi, dopo per i maggiorenni. 

“Fare le vasche” era il modo più semplice e veloce per socializzare, per adocchiare il ragazzo o la ragazza che ci interessava.

Le vetrine dei negozi brillavano di strass e bottoni gioiello. Le “griffes” offrivano agli occhi il piacere che non sempre il portafoglio poteva concedere ed era un brulichio di teramanità, più e  meno giovane che parlava, rideva, camminando o sostando in Piazza Martiri, o seduti ai tavolini dello storico bar “Fumo”.

Teramo si contava lì, ogni sera.

Mancare era quasi uno sgarbo, un appuntamento che aveva la liturgia laica del passeggio rilassante a fine giornata.

Una città provinciale, sorniona, “pigra”, la definiva Ivan Graziani (prossimo al suo 70ennale), che la cantava con rabbia e con rimpianto.

 

Se Dante vedesse oggi questa città, la metterebbe nel girone degli ignavi, dei pigri.

L’Aquila IMMOTA MANET, TERAMO IMMOBILE.

 

di Mira Carpineta – Direttore PrimaPagina