QUELL’ ATTIVITA’ DIVINA SOTTO LE DITA E SOPRA LA TESTA

michiniCarlo Michini e il suo rapporto “fisico” con il pianoforte. Un giorno, passeggiando per i corridoi del Braga, ho sentito provenire dall’aula 9 di pianoforte le note della “Settima Sonata” di Prokofiev. Un pezzo di rara difficoltà e non troppo noto agli studenti, difficile quindi da ascoltare nelle aule di un istituto. In barba a tutto sono entrato per vedere chi fosse il pianista. Era Carlo Michini. Subito gli ho chiesto se era felice di regalarci una riflessione sulla sua storia e sulla sua poetica di musicista.

Ha risposto che era stato da poco in Africa per eseguire il primo di Beethoven e che sì, era ben felice di raccontarsi. “Tra successi e delusioni, smarrimenti e speranze, paure e desideri prosegue il mio umile percorso di pianista, di musicista consapevole delle difficoltà materiali e spirituali che la musica oppone e propone tutti i giorni.  Si sta sospesi tra sogni ed illusioni: diventare un giorno grandi, suonare tutto il repertorio di Beethoven, Liszt e Chopin. Le difficoltà sono tante, gli imprevisti sempre dietro l’angolo e spesso non basta il solo talento musicale a superare gli ostacoli. A ventotto anni credo che l’intenzione di voler diventare musicisti sia innanzitutto la consapevolezza di dover accettare un compromesso tra noi, la vita e la musica. Un circuito virtuoso dove noi rappresentiamo il mezzo, la vita il tempo e la musica il fine. Disponibilità, comprensione, partecipazione, dedizione, sacrificio, pazienza, umiltà sono prerogative fondamentali; sentimento, ragione e spiritualità le regole del gioco; la perseveranza una condizione. La musica un privilegio. Lezioni, masterclass, concorsi e concerti sono esperienze vitali che non servono solo a far lievitare curricula e punteggi per le graduatorie. Al contrario ci aiutano a raggiungere un livello di percezione e trascendenza superiore. L’obiettivo è quello di trovare una dimensione culturale in cui ci si renda conto che l’esecuzione non è solo un’azione, ma, come dice il mio caro maestro Aquiles Delle Vigne, ‘…un’attività divina che non si realizza solamente al di sotto delle nostre dita ma, anche e soprattutto, al di sopra delle nostre teste’. Se dicessi di aver scelto di fare il pianista per potermi esprimere tramite la musica sarei banale e retorico. Se dicessi, di voler essere pianista per poter essere un pò bohemien cadrei in un tranello inevitabile. All’alba del nuovo millennio dico che l’importanza di essere musicisti risiede solo nel fatto di credere nella musica e nel messaggio che in essa vive. La possibilità di poter condividere il mio pensiero con una parte millesimale dell’ispirazione del mio Liszt o del mio Beethoven è un privilegio unico ed esclusivo. Credo sia proprio la convivenza artistica e spirituale con le grandi opere e i grandi compositori ad accendere in noi lo spirito di conquista intellettuale che regola e governa qualsiasi ricerca culturale. A volte, durante le prime fasi di studio di un pezzo, ammetto di essere prigioniero quasi di un’inibizione artistica nei confronti dei “grandi” e delle loro partiture. Tuttavia, quando da bravo artigiano inizio a ricostruire quell’architettura perfetta, l’inibizione si trasforma in ambizione ed entusiasmo. In questa fase inizia la ricerca, un lavoro continuo e costante che glorifica e tormenta. Il suono, il ritmo, il fraseggio, le dinamiche diventano elementi di un’indagine filologica e soggettiva al tempo stesso, un’indagine tesa alla ricerca di un’idea musicale coerente.  Non basta avere solo una buona tecnica: alla fine del lavoro artigianale occorre rendere giustizia all’idea del pezzo e al compositore. L’ambizione al miglior risultato credo sia prerogativa importantissima. Ma non esiste solo lo studio nella vita di un musicista. C’è il confronto con il pubblico. Fare un recital è meraviglioso, suonare con l’orchestra è straordinario. La sinergia tra il suono orchestrale e il pianoforte è perfetta. Sono appena tornato da una tournèe in Kenya dove ho eseguito il Concerto per pianoforte e orchestra n.1 op.15 in do maggiore di Beethoven con l’Orchestra Nazionale del Conservatorio di Nairobi e, oltre al piacere in sé di suonare, sono rimasto folgorato dalla forza d’animo dei ragazzi dell’orchestra (per dovere di cronaca: il direttore era Pasqualino Procacci e l’altro musicista ospite era il flautista Mauro Baiocco). In un contesto economico, sociale e culturale quale è quello africano, non avrei immaginato una simile realtà musicale.