Acqua, bene pubblico… ma disperso

acquaUn’ondata di sì e su questo non c’era dubbio. Il problema era tutto legato al quorum della vicenda, che è arrivato (57%), non con dimensioni titaniche, ma tanto è bastato per cancellare eventuali riforme. Molto è stato scritto sull’ “elettorato” votante, e se fosse in maggioranza di

centro-destra o centro-sinistra. Parecchio è stato inoltre detto sul “quinto referendum virtuale”, cioè sull’essere pro o contro l’attuale governo ed in particolare sulla persona del Presidente del Consiglio. Di sicuro i comitati e le associazioni che si sono schierate a favore del sì hanno avuto maggior presa sulla gente rispetto ai loro dirimpettai di diverso avviso. Bastava guardare le bandiere a mo’ di vittoria nazionale che si affacciavano sui balconi nei giorni precedenti il voto con su scritto: il 12 e 13 vota sì. I primi due quesiti referendari riguardavano norme sui servizi idrici. E’ bene affrontarli singolarmente. Primo quesito: Riguardava la privatizzazione della gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica acqua, rifiuti, trasporti. I privati non potranno quindi averne accesso. La parte di Legge Ronchi abolita dal referendum prevedeva che la gestione del servizio idrico dovesse avvenire, in modalità ordinaria, tramite due tipi di affidamento: a soggetti privati selezionati attraverso una gara o a società a capitale misto pubblico(60%)e privato(40%) in cui il privato fosse stato scelto sempre tramite gara. La stessa legge aveva inoltre confermato la proprietà pubblica di acquedotti, fogne e depuratori. L’acqua, quindi, non sarebbe mai diventata privata, così come non sarebbe stata privatizzata la rete; sarebbe cambiata la gestione del servizio, non più tutta pubblica, come le cd. aziende municipalizzate. Il fronte del “Sì”, capace di un battage pubblicitario notevole e decisamente migliore del no, ha sostenuto che l’abrogazione della norma avrebbe
contrastato l’accelerazione del governo sulle cd. Privatizzazioni, e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici, con aumento dei costi e mettendo a rischio l’accessibilità del popolo meno abbiente al bene primario dell’acqua. Il fronte del “no” –presidente del comitato nazionale il nostro concittadino Walter Mazzitti- affermava invece che l’entrata in campo dei privati sarebbe servita a rendere più efficiente e meno “bucherellato” il servizio, troppo diverso per qualità e prezzi nelle varie regioni e comuni. Al solito, le lacune legislative non possono essere colmate in maniera semplicistica: la norma si applica ai 64 ATO dove i servizi idrici sono ancora pubblici; ce ne sono altri 28 già a gestione mista. Su questi come si opererà? Con la vittoria dei sì avremo quindi un’Italia a doppio regime, pubblico e misto, e soprattutto una nazione che non
ha più l’obbligo di mettere a gara il servizio. Il rischio degli extraprofitti monopolistici e dell’inefficienza clientelare aumenta fortemente.
Secondo quesito: Tariffa del servizio idrico integrato. Attualmente –e anche in futuro, salvo l’intervento di una nuova e diversa legge la
determinazione delle tariffe del servizio idrico sono calcolate in base al capitale investito. I cittadini si sono espressi per l’abrogazione di un comma del codice dell’ambiente,secondo cui la tariffa del servizio idrico sarebbe stata determinata considerando “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. La norma era tanto tecnica quanto carente. Quale l’autorità che avrebbe dovuto vigilare, visto che gli esempi in questo senso in Italia sono stati maldestri e spesso asserviti al potere politico? Anche qui le ragioni del “Sì” sono prevalse: secondo questa accezione, così si sono impediti i “profitti sull’acqua”, caricando sulla bolletta un 7% in più senza garantire piani di reinvestimento per migliorare il servizio. Per i sostenitori del “No”, senza remunerazione del capitale i privati non hanno interesse ad entrare nella gestione
del servizio che rimane con acquedotti colabrodo e persino con alcune zone senz’acqua corrente. Il 7% lordo alla remunerazione del capitale investito è evidentemente inadeguato alla diversità delle situazioni. La dispersione dell’acqua dalla fonte al rubinetto è spaventosa: un po’ si perde nelle dorsali di collegamento, molta negli acquedotti e guasti delle reti nei centri urbani; alcuni semplicemente la rubano, altri non pagano le bollette. Controlli sulla potabilità e qualità dell’acqua, distribuzione, acquedotti, collettamento nelle fogne, depurazioni e scarico. Per rimettere la “filiera” a posto sono necessari circa 100 miliardi di euro. L’Italia, col debito pubblico al 120% del Pil non può farlo. Servono allora i privati, anche esteri, con capitali freschi, ma gl’italiani hanno detto no. Certo, la questione è estremamente complessa. Un caso di maggior successo
è quello di Tatcheriana memoria inglese: la Lady di ferro privatizzò dieci compagnie pubbliche che vendevano acqua. Nei primi anni le tariffe salirono del 40%, ma un controllo stringente dell’autority impose regole severissime con successivo calo di esborso di denaro dei cittadini.
Guardando in casa nostra l’Abruzzo, tra le primissime regioni europee produttrici di vino, ha dimenticato che andrebbe appena sistemata la rete idrica, la quale dimentica per strada la bellezza del 77% dell’acqua che porta.