
La Pasqua è resurrezione per chi ha fede, ma è anche rinascita della natura e, per questo, riti e cibi propiziatori ornano le tradizioni popolari di questo periodo. Castelli è un altro modo per chiamare le pupe, i cavalli, gli agnelli e i cuori: i tipici dolci abruzzesi delle feste pasquali, simboli che richiamano la fecondità. Sono dolci che custodiscono, sopra il loro ventre, un uovo, protetto da cordellini di pasta che lo fanno sembrare un castello, simbolo della vita che nascerà. Si spera che, mangiando quel cibo, se ne assimili il potere simbolico.
La pupa, la madre Terra, la cui forma ricorda anche la conga abruzzese (il recipiente che serve a raccogliere e contenere l’acqua, simbolo di vita, purificazione e rinascita), viene donata alle bambine. Il cavallo e l’agnello sono destinati ai maschietti, mentre il cuore è più spesso un dono che la donna fa al suo sposo, ma anche un semplice presente tra famiglie.
I castelli vengono preparati in diverse varianti che si possono raggruppare in due tipologie: a pasta bianca o a pasta nera. I primi, più diffusi, sono fatti con gli ingredienti di un semplice biscotto, generalmente farina, uova, latte, e spesso recano al centro un uovo, simbolo di vita e fertilità, protetto da cordellini di pasta che lo fanno sembrare incastonato in un castello.
Dalle mie parti, però, prevale la variante più pregiata: quella in pasta mandorla, senza l’uovo e profumata di cannella, mosto cotto e mandorle. In entrambi i casi, vengono decorati con confettini colorati, glasse e ricami, in base alla maestria e al gusto di chi li realizza ancora oggi, dopo secoli.
La Pastamandorla ha le sue varianti: c’è chi aggiunge canditi e chi no, chi li preferisce più scuri, con un tocco di cioccolato, e chi invece li vuole chiari e delicati.

Io adoro quello della mia infanzia: lu cavallucce che mia nonna mi faceva preparare dal forno di Rapino. Era una pasta spessa e molto compatta, ma morbidissima, di un color avorio chiaro, in cui il profumo delle mandorle fresche e della cannella si avvertiva già avvicinandolo al naso. Bastava quell’aroma a farti sorridere, ancora prima di assaggiarlo.
Il dilemma iniziale era da dove cominciare a mordere, ma si risolveva rapidamente seguendo una mia logica ben precisa: prima le zampe, la parte più sottile e troppo cotta; poi la coda e la testa, un po’ più morbide. Lasciavo per ultima la parte centrale, la più alta e saporita, che a ogni morso riempiva la bocca.
Era un’astuzia da buongustaio: conservare il meglio per il finale. Quella parte più alta del cavalluccio, avvolta con cura nella sua carta, diventava il dolce arrivederci alle feste pasquali.
Ancora oggi, quando assaggio un castello di pasta mandorla, penso a quel cavallucce. A mia nonna che me lo portava a casa, avvolto nella carta paglierina; alla mia curiosità di bambino che osservava ogni dettaglio; a quel primo morso che sembrava racchiudere tutta la dolcezza della Pasqua.
Pizza lievitata era il nome che mia nonna dava a quelle fette spugnose, leggere come nuvole, bianchissime dentro e dorate in superficie, punteggiate di semini di anice verde dalla caratteristica codina. La comprava dal forno accanto a casa, quello che raggiungeva attraverso la porta secondaria, entrando direttamente nella stanza dei forni. Ricordo ancora il masso levigato dal tempo, concavo proprio nel punto giusto per farci appoggiare il piede e sporgersi a prendere il dolce. Quante volte l’ho vista riapparire da quel varco con le mani piene: tranci di pizza rossa ancora fumanti e quel profumato “serpentone” dolce che era la Pizza lievitata, aricrisciute, diceva lei.
Molto simile a quella pizza lievitata di nonna è la Pizza di Pasqua, che ho conosciuto solo più tardi, durante un pranzo di Pasquetta. Ricordo la mia curiosità nel vedere quelle fette alte e morbide servite accanto alle tazzine di caffè. Il ristoratore mi spiegò che era una tradizione pasquale: un pan dolce che si prepara per la Pasqua e il lunedì dell’Angelo, molto più alto e consistente della normale pizza lievitata, da mangiare al mattino con i salumi.
Un abbinamento perfetto che ho imparato ad amare: la soppressata frentana, con i suoi pregiati pezzi di maiale, il pepe e i semi di finocchio, sposati con questo pane soffice aromatizzato all’anice. Un contrasto che è una sinfonia di sapori: il dolce del pane che esalta il salato della carne, la speziatura della soppressata che dialoga con l’aromaticità dell’anice.
Quella pizza di Pasqua è diventata per me un nuovo rituale, un modo per allungare la festa oltre la domenica. Come faceva nonna con la sua pizza lievitata, io ora conservo con cura qualche fetta per i giorni successivi, quando il ricordo della Pasqua comincia già a sfumare, ma il profumo dell’anice e il sapore della soppressata riescono ancora a riportarmi all’atmosfera delle feste.
E ogni volta che la preparo, è come se quel masso levigato, quella porta secondaria e le mani di nonna che tornavano con il dolce fumante fossero ancora lì, a ricordarmi che certe tradizioni non finiscono mai davvero: si trasformano soltanto, passando di generazione in generazione.
Questi dolci pasquali non sono semplici preparazioni culinarie, ma veri e propri simboli che parlano di rinascita, di legami familiari e di tradizioni che resistono al passare del tempo. Dalla Pastamandorla decorata alla Pizza lievitata della nonna, ogni morso racconta una storia: quella di un Abruzzo che custodisce con orgoglio il suo patrimonio gastronomico e culturale.
David Ferrante